Comune di Banari

Provincia di Sassari
  • Seguici su:

Cenni

 

B A N A R I

(Profilo storico - sociale)

(a cura di Costantino GIOLA)

 

 

Il paese di Banari, con una estensione territoriale di 2127 Ha. ed una popolazione di 617 abitanti, è situato in quella parte della provincia di Sassari denominata Meilogu dal nome medievale della curatoria chiamata per la sua centralita’ “Meiulocu” (luogo di mezzo).

Il suo territorio, prevalentemente collinare, ha come estremi i 169 metri della cantoniera di Truncu Nieddu sulla strada provinciale per Ittiri e i 583 di monte Sa Silva al confine con Bessude, è attraversato dal rio Biddighinzu (chiamato anticamente Tamerici) che, con il suo affluente il rio Binza de Sè, alimenta l’omonimo acquedotto.

L’abbondanza di acque, la fertilità dei terreni, situazioni climatiche favorevoli, hanno favorito la presenza di insediamenti umani a partire dal periodo della cosiddetta ”Cultura di Ozieri” (2500 – 2000 a.C.) come ne attestano la presenza i vari nuraghi, domus de janas e coroneddos posti in prevalenza nei pressi del rio Biddighinzu (Su Crapione, Falza, Ziu Juanne).

Le numerose sorgenti ed i due fiumi sono stati considerati elementi caratterizzanti del territorio, tanto da essere inseriti nello Stemma Comunale, approvato con D.P.R. del 21 giugno 1994, ciò mi porta ad affermare che il probabile significato del nome BANARI (nel medioevo VANARI) sia “ANA’ RY = sopra i fiumi.

Nel tempo sono stati proposti vari significati fra i quali:Abitazione dal fenicio BANA e Lanterna dal greco FANARION, quest'ultimo tutt'al più potrebbe essere indicato ai villaggi medievali di Fanari susu e Fanari josso posti nella curatoria di Gippi.

L’esistenza del villaggio in epoca romana è confermata da un manoscritto del rettore Vincenzo Chighine che alla fine dell’800 informava sul ritrovamento, in un terreno posto poco distante dalla parrocchiale di San Lorenzo, di vasi e monete attestanti l’esistenza di una necropoli pagana, nonché oggetti con simbologia cristiana.

Sono però le testimonianze medioevali quelle che ci permettono di avere un quadro relativamente preciso per poter tracciare un profilo storico di questo paese, sia per la sua identità, sia nel contesto politico più generale del passaggio dal periodo giudicale alla dominazione spagnola.

Il primo documento in cui viene citato Banari (Vanari) è la bolla di Papa Onorio II del 7 marzo 1125, con la quale vengono posti sotto tutela pontificia vari possedimenti camaldolesi, fra i quali le chiese di San Lorenzo e San Michele donate da Costantino I de Lacon, giudice di Torres.

Con successiva bolla di Anastasio III del 19 novembre 1154 le due chiese e le loro pertinenze vengono poste sotto la giurisdizione dell’Abbazia della SS. Trinità di Saccargia.

Queste e le varie bolle emanate nel corso del XII e XIII secolo ci confermano che il villaggio (villa) di Banari era composto in periodo giudicale da due domos comprendenti sia la dotazione giudicale delle due chiese ai monaci , cioè, case, terreni, bestiame e servi, così come avveniva in quel tempo, sia la preesistente aggregazione rurale

L’arrivo dei monaci non modificava l’organizzazione all’interno della ”villa”, a capo della quale stava il “majore”, nominato dal curatore e con funzioni di mantenimento della quiete all’interno della comunità, al riguardo tutte le persone comprese tra i 17 e i 70 anni annualmente rinnovavano il patto di vigilare sul rispetto delle regole comunitarie e di denuncia dei furti.

Per la risoluzione delle controversie veniva istituito un particolare tribunale, chiamato “corona”,presieduto dal “majore”, mentre i casi più gravi venivano sottoposti al curatore.

L’attuale territorio comunale era compreso nelle curatorie di Figulinas e Mejlogu, alla prima apparteneva il villaggio di Seve, che a seguito di vicende matrimoniali della famiglia giudicale venne portata in dote da una donnicella (Urika) ai Malaspina sotto la cui influenza rimase fino alla metà del XIV secolo, mentre Banari, situato nella curatoria di Mejlogu, fece parte già in periodo giudicale dei feudi della famiglia Doria.

Il possesso da parte dei Malaspina delle curatorie terminò nel 1353, quelle di Montes, Figulinas e Coros erano già state lasciate in eredità da Giovanni Malaspina a Pietro IV nel 1343, mentre quello dei Doria, con alterne vicende, durò fino al 1421, anno nel quale le due curatorie fecero parte di un grande feudo concesso a Bernardo Centelles.

Con le crisi finanziarie della famiglia Centelles, e soprattutto di Francesco Gilaberto, figlio di Bernardo, debitore nei confronti dei cognati delle doti attribuite alle sorelle all’atto del matrimonio e mai pagate, parte del grande feudo venne smembrato in tanti piccoli territori che divennero feudi di quella oligarchia catalana e sassarese che con i traffici e gli appalti di dazi e dogane avevano accumulato ricchezze che permettevano loro di acquistare i feudi messi in vendita a varie riprese dal governo spagnolo per far fronte alle spese di corte e militari.

Nell’aprile del 1442 Francesco Gilaberto, per far fronte alle richieste dei suoi creditori, vendette i due villaggi di Siligo e Banari, nonché il territorio di Seve che, a seguito di transazione tra il proprio padre Bernardo e Serafino Montanans nel 1425 era entrato a far parte del patrimonio della famiglia Centelles, al mercante sassarese Cristoforo Manno, il quale li cedette a Nicolò Viguino nel 1444 che, a sua volta nell’aprile 1445 li vendette a Serafino Montanans.

Nel 1500 il feudo fu dato in dote a Giovanna Montanans che sposava Francesco di Castelvì, successivamente per vicende familiari passò nel 1535 ai Cardona e nel 1597 al conte Giacomo Castelvì che lo assegnò al suo secondogenito Paolo il quale nel 1646 ebbe il titolo di Marchese di Cea.

Durante il loro possesso i Castelvì regolamentarono l’elezione del majore, scelto ogni anno dal feudatario da una terna di persone elette dalla comunità, nel feudo venne anche istituito il corpo dei barracelli.

Nel luglio del 1669 il feudo, sul quale gravavano debiti e ipoteche, fu confiscato a Giacomo Artal di Castelvì, implicato nell’omicidio del vicerè Camarassa e dato al sassarese Giacomo Alivesi come ricompensa per aver contribuito alla cattura del marchese di Cea, con la condizione di pagare 120 scudi annui al compare don Gavino Delitala di Nulvi detto “Bainzu Sgannau”, ed ebbe anche come premio 12 salvacondotti da vendere a banditi e galeotti .

Il delatore non potè prenderne possesso per la sollevazione degli abitanti dei due villaggi.

Nel 1699 il feudo fu concesso a Giovanni Battista Fortesa, che si accollò il pagamento dei debiti ottenendo il nuovo titolo di conte di Monteacuto, i suoi eredi non riuscendo a far fronte al pagamento dei debiti rinunciarono il 21 aprile 1740.

Nel marzo del 1741 venne acquistato da Giacomo Musso, che ebbe il titolo di conte di Montesanto. Egli estinse i debiti e si impegnò a ripopolare il villaggio di Villanova, cosa che non gli riuscì. La gestione dei Musso, piuttosto esosa e fiscale, causò dei contrasti con i vassalli che, con lo scoppiare dei moti antifeudali alla fine del mese di luglio del 1795 con l’avvicinarsi della scadenza del pagamento dei diritti feudali, sfociarono in aperta ribellione nei confronti dell’allora conte Raimondo Musso.

Il giorno di San Giacomo venivano eletti dal feudatario i funzionari incaricati dell'amministrazione del feudo i quali, accompagnati dalle milizie dei paesi facenti parte del feudo, si recavano a cavallo con bandiere inalberate, nella omonima chiesa attorno alla quale si svolgeva l'Ardia.

Il feudo fu riscattato l’11 giugno 1839 con un riconoscimento di diritti feudali talmente superiore al valore reale che, secondo una citazione dell’Esperson, sembra che durante un pranzo alla presenza del nobile Leonardo Solinas, Maurizio, figlio del citato Raimondo, abbia pronunciato la frase: Adesso si che posso vantarmi di essere conte.

Il titolo comitale si estinse alla fine del XIX secolo con il matrimonio di Efisia Musso con un Ruda.

Nonostante queste vicende il marchesato di Cea risulta per tutto il periodo di dominazione piemontese una fonte di reddito essendo considerato un feudo reale a seguito di estinzione di discendenti successibili e come tale era considerato in bilancio un reddito minore compreso nella voce rendite diverse.

Una pur breve sintesi della storia di questo paese deve necessariamente comprendere la rievocazione degli aspetti caratterizzanti la comunità che nel corso dei secoli ha saputo mantenere una sua identità.

Con la partenza degli ultimi monaci e l’incremento di popolazione a seguito dell’arrivo degli abitanti di Seve, Banari assunse una connotazione urbanistica, sociale ed economica che la contraddistinse per tutto il periodo feudale, infatti, sia i vari feudatari che si susseguirono, sia anche il regio fisco, dovettero tenere sempre conto dello spirito comunitario che animava la popolazione di questo paese.

Feudatari e prinzipales dovettero sempre accettare l’esistenza di una agricoltura comunitaria che a sua volta alimentava lo sviluppo di varie attività artigianali, la più famosa delle quali era la costruzione di utensili di terraglia (i fornelli) venduti in varie parti della Sardegna.

Il silenzio nelle cronache criminali del periodo feudale, giustifica sia la coesistenza pacifica al suo interno sia il formarsi di strutture associative una delle quali si diffuse anche in varie parti soprattutto del nord Sardegna.

A Banari risulta costituita una delle prime associazioni di Battudos dell’archidiocesi di Sassari, infatti la sua Confraternita di Santa Croce risulta dotata già dal 1549 di un suo codice in sardo intitolato "Regulas, Capitolos chi deven osservare sos Confrades e cunsorres de Santa Rughe" che ne disciplinava sia la struttura organizzativa che l’attività.

Tale codice, che rifletteva le regole praticate dai Disciplinanti di Sassari, risulta redatto dal priore Giuseppe Marongiu secondo un analogo seguito dalla Confraternita di Osilo, a sua volta il codice di Banari venne trascritto nel 1592 per mano di Martino Marongiu su commissione del rettore di Borutta Giovanni Falche.

Una particolarità di questi codici era l’introduzione della lingua logudorese.

Responsabile della gestione amministrativa e finanziaria della Confraternita, alla quale erano ammesse persone di tutti i ceti sociali, era il Priore, coadiuvato dal Cappellano (che percepiva un salario) per gli adempimenti religiosi.

La Confraternita, che si riuniva nell’omonimo oratorio, aveva anche una sezione femminile, si radunava d’obbligo in occasione delle festività religiose, il 2 febbraio per la Benedizione delle candele,nonché il 3 maggio Invenzione della Santa Croce in occasione della quale veniva eletto il Priore, per la festa di San Sebastiano, era inoltre un dovere dei confratelli e delle consorelle partecipare ai funerali degli iscritti.

Il momento comunitario più importante era costituito dalle cerimonie della Settimana Santa, con la massima tensione religiosa nei giorni di giovedì per il Lavabo ed il venerdì per il Discendimento (S’Iscravamentu).

Il senso di solidarietà e lealtà della comunità banarese è evocato nei libri di storia in occasione di due momenti che hanno segnato la vita sociale della Sardegna: Le vicende che hanno portato all’uccisione del vicerè Camarassa,con la misera fine del marchese di Cea Jacopo Artaldo di Castelvì e soprattutto durante i moti antifeudali di fine Settecento.

Durante l’ultimo decennio del 18° secolo la Sardegna, recependo sia pure in modo confuso, l’esigenza di porre fine al regime feudale, fu scossa da una ondata di ribellioni contro i feudatari, alimentate dal movimento democratico che aveva in G. M. Angioy il suo principale esponente.

Banari, paese aderente al patto antifeudale del Capo di Sopra, aspirava all’affrancamento del feudo dalla famiglia Musso che, con i duchi dell’Asinara ed altri, tenevano comportamenti tali da essere stigmatizzati anche dal governo piemontese, per il mancato rispetto del pregone del vicerè emanato il 10 agosto 1795 che riconosceva come ingiuste le esazioni di diritti feudali.

A tenere vive le rivendicazioni contribuiva il fatto che l’altro movimento antifeudale, quello moderato, aveva presso le famiglie della piccola nobiltà locale banarese dei ferventi sostenitori, primi fra tutti i Solinas legati da amicizia a Gianfrancesco Simon, abate di Cea, costui assieme ai fratelli Domenico e Matteo, proponeva delle riforme che potessero permettere un miglioramento delle drammatiche condizioni di vita del popolo sardo.

La sua franchezza nell’attaccare i privilegi dei nobili e dell’alto clero, gli attirerà l’inimicizia di queste classi ed il successivo esilio, finchè non gli sarà permesso di rientrare ad Alghero, sua città natale, dove potè dedicarsi allo studio della storia ecclesiastica e del diritto in Sardegna.

Don Leonardo Solinas, abitando anche lui ad Alghero, fu senz’altro a conoscenza del pensiero politico della famiglia Simon e non poteva non condividerlo, inoltre, la sua appartenenza alla piccola nobiltà lo faceva sostenitore delle idee democratiche che si erano diffuse nel Logudoro.

Nell’ultimo decennio del 700 sia il movimento democratico che quello moderato portarono avanti nel Capo di Sopra in modo congiunto le proprie rivendicazioni, la borghesia, infatti aspirava alla fine del regime feudale, mentre la classe contadina chiedeva la cessazione degli abusi da parte dei feudatari.

Alla guida del movimento si pose G. M. Angioy che, inviato a Sassari per impedire il tentativo separatista, fece si che le rivendicazioni assumessero il carattere di aperta ribellione, che si concluse nel 1800 con la feroce repressione dei partecipanti alla difesa di Thiesi.

Nel 1795 due dei tre commissari inviati da Cagliari, i sassaresi Francesco Cilocco e Gioacchino Mundula, colsero l’occasione per fare propaganda antifeudale, orientando la lotta delle popolazioni logudoresi verso la soppressione del feudalesimo.

Lo stesso vicerè, con pregone del 10 agosto, aveva invitato i Sindaci e i Consigli comunicativi a denunciare le ingiuste esazioni di tributi da parte dei feudatari.

Questo invito venne interpretato come un incitamento alla lotta.

Il 12 dicembre dello stesso anno l’Avv. Don Leonardo Solinas, al quale era stata conferita dal Consiglio Comunitativo di Banari procura speciale, rogata dal notaio Leonardo Satta, presentò a Cagliari il Piano delle Gabelle e delle varie esazioni subite da parte del feudatario, il conte Musso.

Durante l’inverno, quando la situazione sembrava favorevole all’Angioy, fu ritenuto opportuno stipulare da parte dei villaggi del Logudoro, un patto di unione che prevedeva l’abolizione del feudalesimo.

A tal fine il 17 marzo 1796 il Consiglio Comunitativo di Banari intervenne alla riunione alla quale erano presenti i consiglieri di altri 30 comuni e nella quale venne firmato un accordo che prevedeva di non riconoscere più alcun feudatario o suo rappresentante, in caso di aggressione ad uno di essi gli altri sarebbero prontamente intervenuti in sua difesa, venne ribadito il contenuto delle petizioni da rivolgere al Vicerè, come previsto dal pregone del 10 agosto dell’anno precedente, infine si confermò il riconoscimento del potere del Vicerè e del Parlamento di Cagliari.

Per dare maggiore efficacia al documento, lo stesso venne con giuramento sottoscritto da tutti i Consiglieri.

Il 25 marzo successivo, con due procure rogate dal notaio Francesco Sotgiu-Satta, venne affidato l’incarico all’Avv. don Leonardo Solinas di tutelare gli interessi di Banari presso il Vicerè ed il Parlamento di Cagliari.

La prima procura era rilasciata dai nobili don Gavino Solinas, don Ignazio Corda e don Ignazio Delitala, la seconda dal Sindaco Bachisio Chighine, dai consiglieri Pietro Sanna, don Ignazio Delitala, Francesco Antonio Mura, Pietro Paddeu, Salvatore Virdis, Salvatore Solinas-Porqueddu e dai Consiglieri aggiunti don Gavino Solinas, Gioacchino Delrio-Manunta, Salvatore Angelo Porqueddu, Baingio Perra, Antonio Falqui, Pietro Solinas, dal Censore don Ignazio Corda, dal Rettore Giuseppe Luigi Cano, dal Parroco maggiore Gavino Carboni-Serra, dai reverendi Agostino Morette, Antonio Sassu, Francesco Manca e dal Maggiore di Giustizia Baingio Manca.

Questo atto al quale diede l’adesione più dei due terzi degli abitanti, come attesta lo stesso notaio, fu sottoscritto da tutti gli intervenuti, tranne che da Pietro Paddeu, Salvatore Virdis, Salvatore Solinas-Porqueddu, Antonio Falqui, Pietro Solinas e i testi Matteo Manunta e Salvatore Manca che erano analfabeti.

L’atto notarile, composto di cinque pagine, prendendo atto della impossibilità di un accordo con il feudatario, sul Piano delle Gabelle presentato nel precedente mese di dicembre, propone l’abolizione del feudo pagando un giusto e ragionevole riscatto al conte Musso.

Ma mentre Banari e gli altri paesi del Logudoro aspettavano il rispetto da parte del governo viceregio di Cagliari delle promesse fatte, nella capitale sarda la situazione politica era cambiata a favore del vicerè, e la maggior parte dei vecchi amici di G.M. Angioy ponevano fine al partito democratico, i pochi rimasti a lui fedeli, che non fecero in tempo a scappare, subirono le torture fatte infliggere dal giudice Giuseppe Valentino, la cui crudeltà fu biasimata dallo stesso governo, ai condannati a morte, infatti, fece mozzare la testa esponendola sulle mura della città di Sassari per molti anni e fece disperdere le ceneri al vento.

Falliti i moti antifeudali, il vicerè non mantenne le promesse ed i feudatari ripresero la loro vecchia arroganza.

Fra questi si distinse il duca dell’Asinara, don Antonio Manca, che si accanì ulteriormente contro i propri sudditi di Thiesi, che, stanchi di subire ingiuste esazioni di tributi, nel 1800 organizzarono una manifestazione di protesta, alla quale aderì l’intera popolazione.

Nel contempo il Sindaco ed il Consiglio Comunitativo si rivolsero al vicerè informandolo che si sarebbero rifiutati di pagare i tributi perché impossibilitati dalla carestia.

Il governatore di Sassari organizzò una spedizione punitiva di 2500 uomini al comando di Antonio Grondona, mentre Thiesi poteva contare su 800 uomini, 150 dei quali di Banari e 150 di Bessude, per l’impegno assunto da questi due paesi nel mese di marzo 1796 di non riconoscere più alcun feudatario e di fornirsi reciproco aiuto in caso di aggressione.

Nonostante una strenua difesa all’interno dell’abitato, le forze governative ebbero il soppravvento.

Fra i difensori si ebbero 14 morti, 34 feriti, mentre 18 abitazioni furono completamente distrutte.

A seguito dell’inchiesta condotta dal giudice Valentino e della feroce repressione che accertò fra i capi i banaresi Gavino Chighine e Giacomo Sole, il primo con sentenza del Consiglio di guerra del 1° gennaio 1801 fu condannato ad essere pubblicamente appiccato, con la testa da affiggere al patibolo, bruciamento del busto, dispersione delle ceneri al vento e spese di giustizia, il Sole con sentenza del 14 gennaio fu anche lui condannato a morte e alla confisca dei beni.

Con sentenza del 17 gennaio fu condannato a morte Giacomo Francesco Carta e all’ergastolo Matteo Serra.

Il 27 febbraio furono giustiziati nelle forche di “Mesu ‘e Guada” a Thiesi, Giacomo Francesco Carta, Antonio Gavino Sanna, Giacomo Matteo Serra, Giacomo Sole, ai quali furono anche confiscati i beni.

 

Palazzo Comunale

 Nella piazza A. Solinas, proprio al centro del paese, si ammira il Palazzo Comunale costruito nei primi decenni dell'800 ed abbellito dalla tipica pietra rossa banarese, al cui piano terra una bella sala è stata adibita ad Aula Consiliare, appartenuto nel corso del XIX secolo alla famiglia Solinas.

Da secoli la piazza è conosciuta dai banaresi come "Sas Bovedas"perchè le case costruite intorno ad essa avevano tutte la volta.

Altro nome della stessa è stato Largo Riunione dovuto al fatto che da sempre è stata il salotto della comunità, infatti, oltre che punto di incontro quotidiano, nel 1796 nobili e capifamiglia hanno firmato l'atto di delega a favore dell'Avv. Leonardo Solinas contro l'allora feudatario Raimondo Musso, mentre negli anni del regime fascista vi si svolgevano saggi ginnici e dalla finestra della sezione del fascio una radio ne diffondeva le direttive.

All'acquisizione del Palazzo, avvenuta alla fine del XIX secolo, l'Amministrazione Comunale giunse dopo una serie di trattative avute anche con altri proprietari di immobili.

Le prime trattative si tengono nel 1887 con la nobile donna Antiocangela Corda che propone la vendita di un caseggiato in perfette condizioni di sua proprietà al centro del paese da adibire a Ufficio Comunale, alloggio e caserma per i carabinieri, Ufficio del Conciliatore, Segreteria e Gabinetto del Sindaco.

L'importo, sarebbe stato fissato a seguito di perizia ed il pagamento sarebbe dovuto avvenire in dieci rate annuali.

L'anno seguente viene approvato uno schema di contratto secondo il quale la suddetta avrebbe ceduto tutto il corpo di case posto in via Abbondanza, compresi scuderie, giardino e scuderie per la somma di Lire 9997,34 sempre in dieci rate annuali e con l'interesse del 4,50 %.

La trattativa successivamente si interrompe perchè a seguito di perizia del tecnico Novarino che valuta l'immobile Lire 5998,20 donna Antiocangela Corda chiede il pagamento in unica soluzione, somma che il Comune è in assoluta impossibilità a reperire.

L'occasione si presenta nel 1892 con l'intenzione della Banca Nazionale a vendere il palazzo espropriato al nobile don Rafaele Solinas, dal valore reale di Lire 20.000, per il quale il Comune offre la somma di Lire 5500 pagabile in dieci rate annuali con l'interesse del 5% e a cui farebbe fronte con la vendita del locale di Su Monte (valutato Lire 2000) e di Sa Mandra (valutato Lire 400) e con una sovraimposta sui terreni e i fabbricati.

Acquisito il palazzo l'Amministrazione Comunale si preoccupa di far richiesta alla Prefettura di Sassari della Caserma dei Carabinieri, visto che quella promessa al comune viciniore di Siligo "pare che resterà un pio desiderio"e "che da tempo le condizioni della pubblica sicurezza lascino molto a desiderare perchè ai furti son succedute le rapine ed a queste tengono dietro i reati contro le proprietà. Che l'agro Banarese si presta facilmente a nascondiglio e a sicuro alloggio di malviventi per l'accidentalità del terreno e tanto è vero che fu teatro di indescrivibili e tristissime scene di sangue, compiute per opera dei famigerati Derosas e Angius.

Che dalle recenti statistiche risulta che il Comune di Banari da il sei per cento di contingente di delinquenti, mentre gli altri comuni del mandamento non danno che il due per cento".

Nel 1899 a seguito di approvazione da parte della Prefettura di Sassari di istituzione della Caserma dei Reali Carabinieri si procede all'appalto dei lavori di adattamento dei locali nonchè a fissare il prezzo dell'affitto in lire 1000 annue.

Il palazzo era stato pagato l'anno precedente, mentre i lavori per l'adattamento degli Uffici Comunali e della Caserma verranno saldati nel 1903.

 

 P r o f i l o S o c i a l e

 In assenza di documenti possiamo immaginare che la popolazione di Banari nel XII e XIII secolo fosse per la stragrande maggioranza formata da servi, infatti, soltanto all'inizio del XIV secolo avremo la fine della servitù ed anche l'intera popolazione di Banari sarà costituita da uomini liberi quasi tutti soggetti però al pagamento del "datium".

Questo non solo non migliorò le condizioni della popolazione, anzi la rese sempre più soggetta ai pochi benestanti ai quali forniva la propria opera per sopravvivere

Le misere condizioni fecero sì che l'andamento demografico rimanesse pressochè costante per tutto il periodo della dominazione spagnola, dalla fine del XV secolo agli inizi del XVIII essa si mantenne intorno ai 250 abitanti.

A partire dal censimento del 1728 (539 abitanti) avremo un consistente aumento che toccherà il massimo storico nel 1911 (1517 abitanti).

Varie sono le motivazioni di questo aumento, comune a molti centri della Sardegna, esse possono essere sintetizzate nel miglioramento delle coltivazioni agrarie, nell'alto numero dei gioghi di buoi (90 a metà del XIX secolo) ed il conseguente sviluppo di altre attività economiche.

tra la fine del XVII secolo e gli inizi del XVIII iniziano a emergere alcune famiglie che influenzeranno la vita comunitaria fino ai primi decenni del secolo scorso.

Si tratta principalmente delle famiglie Solinas, Marongiu, Delogu, Nurra, Delitala e Delrio che non solo manterranno le loro proprietà con matrimoni tra le une e le altre ma le incrementeranno sempre per matrimonio con nobili dei paesi vicini ed, inoltre, alcuni di loro saranno protagonisti in Sardegna sia in campo religioso che civile.

Membri di queste famiglie sono stati Mons. A.M. Solinas vescovo di Nuoro dal 17.4.1803 al 2.2.1812, Mons. Diego Marongiu, arcivescovo di Sassari dal 14.4.1872 al 11.10.1905, nipote di Mons. Emanuele Marongiu (nato a Bessude) ed arcivescovo di Cagliari dal 28.8.1842 al 12.9.1866, nonchè vari magistrati.

Tutte queste famiglie furono insignite del cavalierato ed inserite nell'Elenco Ufficiale delle famiglie nobili.

Con la fine del regime feudale a queste famiglie si aggiungeranno un piccolo numero di contadini e pastori benestanti che concentreranno terre, strumenti agricoli, buoi da lavoro e bestiame e che, con la privatizzazione della terra si accaparreranno dei terreni comunali, da affittare ai meno abbienti, che prima godevano su di essi diritti gratuiti..

A Banari, pur se il malcontento non raggiunse la gravità, come in altri paesi, occorre segnalare l'uccisione di don Peppe Serafino Flores il 6.8.1850, ed un aumento dei furti nelle campagne che costringeva pastori e contadini a soggiornare anche per mesi nelle campagne in difesa delle proprie magre proprietà.

Alla fine del XIX secolo la presenza di alcuni banditi, fra i quali Francesco Derosas "Cicciu Rosa"creerà nel paese una situazione di malessere tale che la Prefettura di Sassari darà l'assenso alla costruzione della Caserma dei Carabinieri.

Con la concentrazione della ricchezza nelle mani di una ventina di famiglie, piccoli pastori, contadini e braccianti saranno costretti a prendere in affitto terreni, strumenti di lavoro e sementi da nobili e benestanti con contratti nettamente favorevoli a questi.

Nelle cattive annate non era raro restituire i debiti con corrispettivo in giornate di lavoro.

Questa economia di sopravivenza comportava un mancato sviluppo anche delle altre attività presenti nel paese.

Calzolai, muratori, falegnami, scalpellini, fabbri, stagnini, fabbricanti di fornelli, carbonai, muraioli e pirotecnici venivano pagati normalmente nel mese di agosto quando i capifamiglia disponevano dei prodotti del raccolto.

A rendere più chiusa l'economia banarese contribuiva la mancanza di vie di comunicazione con i paesi vicini che costringevano a grandissimi sacrifici i pochi venditori di cipolle, formaggi, fornelli e stoviglie di terracotta che si avventuravano in strade definite dall'Angius dei rompicolli.

Ad aggravare la situazione delle famiglie più povere contribuiva, inoltre, il pagamento delle decime alla chiesa.

 

ATTIVITA' AGRO - PASTORALI NEL XIX SECOLO

 

 Superficie Ha. 2127 Grano Ha. 250

Bosco " 700 Orzo " 70

Terreni chiusi " 250 Fave " 40

Vidazzoni " 760 Erba medica " 11

Bestiame capi 3600 Lino " 16

Gioghi di buoi n° 90 Legumi " 8

Centro abitato Ha. 2

 

 

ATTIVITA' COMMERCIALI NEL 1911

 

Come rilevato in precedenza l'economia del paese non permise mai uno sviluppo delle attività artigianali e commerciali tali da recare del benessere alla generalità della popolazione.

Gli unici prodotti venduti fuori del territorio comunale erano le stoviglie di terracotta e le cipolle, mentre i cereali, i formaggi, l'olio e il vino si consumavano in paese.

Le attività commerciali si riducevano a:

ARRU Maurizio calzolaio

BACOLLA Giacinto vendita di olio

CARBONI Baingio vendita di calce, foraggio

CARTA Cosimo vini e liquori

CHERCHI Lussurgia albergatrice

CHERCHI Pietro appaltatore, capomastro

CHERCHI Raffaele calzolaio

CHESSA Paolino servizio postale, agenzia giornalistica, macchine da cucire Singer

COSSEDDU Tommaso vendita di argenterie

DELOGU Giovanni Maria vendita di olio, sughero

LENTINO Giuseppe coloniali, salumeria, stoffe, terraglie

MANCA Luigi vendita di bestiame

MORETTI Giovanni Antonio mulino

MORETTI Giovanni Luigi chincaglierie, terraglie

MORETTI Luigi vendita di cereali, frutta

OGGIANO Pietro carbonaio

PES Giacomo vendita di formaggio

PINNA Salvatore vendita di cereali

PISONI Francesco fabbro

PISONI Giuseppe falegname

PORCU Baingio distillerie

PIU Leonardo appaltatore

SADOVA Francesco parrucchiere

SANNA Luigi vendita di calce, macelleria, vini e liquori

SANNA Peppico vetturino

SANNA Pietro vendita di bestiame, macelleria, panetteria, tabacchi, vini e liquori

SOLINAS Leonardo vendita di olio

La scuola elementare fino alla terza aveva come maestri: SANNA Salvatore, SANNA MUZZU Rosina e RUGIU Anonietta.

 

 APPENDICE

 

 Il movimento demografico

 Secondo i primi rilevamenti demografici relativi all’anno 1388 Banari aveva 11 fuochi fiscali, diventati 38 nel 1485.

Nel 1603, essendo feudataria donna Alfonsa di Castelvì, marchesa di Cea, Banari e Siligo contavano complessivamente 253 fuochi.

Al censimento del 1627 la precedente composizione di 95 fuochi fiscali accertati nella rilevazione del 1583 viene modificata in: fuochi fiscali accertati dai commissari viceregi n° 28 – dall’Inquisizione n° 87. Il donativo dovuto da Banari fu ripartito tra 87 fuochi.

Al censimento del 1655 effettuato dopo l’epidemia di peste che aveva colpito l’intera Sardegna tra il 1652 e il 1653 (ed in particolare Banari e paesi vicini nella primavera/estate del 1653) su 59 fuochi se ne contavano 30 ai fini fiscali.

 Nel 1678 i fuochi erano 81 - nel 1688 sempre 81 (106 M 112 F 218 T) – nel 1698 erano 82 (117 M 116 F 233 T) – nel 1728 erano 136 (539 T) – nel 1751 erano 151 (335 M 325 F 660 T) - alla fine del 1700 erano 243 (511 M 526 F 1037 T) - nel 1821 (1190 T) – nel 1824 (631 M 640 F 1271 T) - nel 1838 (1306 T) – nel 1844 (1206T) - nel 1848 (1255 T) – al 31.12.1857 (1182 T) - al 31.12.1861 (1186 T) – al 31.12.1871 (1296 T) – al 31.12.1881 (1296 T) – al 10.02.1901 (1461 T) - nel 1911 (1517) - nel 1921 (1462) – nel 1931 (1355 T) – nel 1936 (1369 T) – nel 1951 (1444 T) – nel 1961 (1198 T) – nel 1971 (866 T) nel 1981 (931 T) - nel 1991 (756 T) - nel 2001 (677 T) - nel 2011 (617 T)

- Nel decennio 1962-1971, 95 nati e 107 morti; 131 inscritti all'anagrafe e 466 cancellati -

  

TOPONOMASTICA

 

Antecedente al 1872

 Via di Raffaele Cherchi

“ “ Giacomo (Giagu) Morette

“ “ Giacomo Manca

Contrada San Michele

San Giacomo (Santu Giagu)

Sos Palattos

di Salvatore Carboni

di Andrea Majali

Funtana de giosso

Santa Croce (carrela de Santa Rughe nel 18° secolo)

di Antonio Morette

Sas Bovedas

Sas Rocchittas

Su Monte

di Giuseppe Pes

Pirazzida

di Gavinu Seche

S’Ulumu (s’umulu) – contrada dell’Olmo

di Baingio Sini (Ainzu de Sini)

Binza de Sena (s’ena)

Sas Mialinas

Montju

Sa essida de Tiesi

San Lorenzo

Su Fiolalzu (Violalzu)

Mandra de Corte

Su Conduttu

S’Abbadorzu

Sas Codinas

S’Istradone

Su Molinu de su Samunadorzu

Su Molinu de sa Cattighera

Su Molinu de Santa Maria

Vergine di Cea (molino 67/51)

Molino di Badde Inzas (territorio di Siligo)

 

Dal 1872 ai primi anni del 1900

Via del Progresso (E. d’Arborea)

del Conforto

Roma

dell’Abbondanza

del Rinnovamento (piazza)

Vittorio

dello Statuto

Nuova

del Gallo

dei Venti

Nazionale

al Prato

della Concordia (largo) (ex Montju)

Azuni

Marongio

della Viola (Mazzini)

alla Fonte

dell’Armonia

della Speranza

degli Aranci

Vico Delogu

Largo della Riunione

 

 

 

 

 

Allegati (1)